Durante la prima metà degli anni Ottanta, si è affermato il bizzarro fenomeno dei librogame, ovvero volumi che cercavano di sposare la narrativa tradizionale con lineamenti tratti dai giochi di ruolo da tavolo, per favorire l’immedesimazione emozionale e, allo stesso tempo, l’interattività ludica da parte dell’utente. Si tratta, in sostanza, dello stesso obiettivo che il videogioco insegue da almeno due decenni, incamerando in dosi sempre più massicce elementi caratteristici del linguaggio cinematografico, ma con risultati che raramente convincono appieno.

In genere, il problema di fondo è una certa mancanza di convinzione nel dirigere in maniera professionale la parte strettamente filmica del videogioco, la quale, se analizzata a sé stante, appare ancora alquanto grezza e povera. Recitazione eccessivamente enfatica da parte dei personaggi virtuali, uso piuttosto piatto delle luci, fotografia monotona, dialoghi didascalici e montaggio poco incisivo sono alcune delle pecche che spesso affliggono il lato cinematografico del videogioco… almeno sinora.

Già, perché, con The Last of Us, Naughty Dog confeziona un vero e proprio ‘filmgame’, che, al pari dei summenzionati librogame, ibrida con perizia tecniche proprie di due media differenti, al fine unico di creare un’esperienza completa, tanto impattante sul piano del coinvolgimento emotivo quanto su quello dell’intrattenimento puro. Tale obiettivo viene perseguito senza cercare di rivoluzionare gli stilemi in uso nel videogioco, ma, piuttosto, curando in maniera straordinaria gli aspetti cinematografici.

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Volendo utilizzare un gioco di parole, The Last of Us è una lezione di stile impartita attraverso un esercizio di stile. Leziosità e calligrafismo demarcano il perimetro entro cui si sviluppano gli aspetti tecnico-espressivi del prodotto, ma ciò non è la conseguenza di un atteggiamento borioso, quanto il frutto di una scelta effettuata con estrema umiltà. Difatti, con la lucida consapevolezza che il medium videoludico ha ancora molta strada da fare prima di ottenere un controllo totale sugli elementi filmici inglobati nel suo linguaggio poliedrico, Naughty Dog vola basso dal punto di vista dell’originalità e si limita a fare poche cose, ma in maniera molto professionale.

Ambientato in un futuro dove l’umanità è stata infettata da un virus mutageno, il gioco narra l’odissea di Joel, cinquantenne incrudito dai tragici eventi vissuti durante l’apocalisse virale, ed Ellie, una ragazzina costretta a crescere in fretta e che sembra essere l’unico esemplare immune all’infezione. I due dovranno attraversare un’America desolata e violenta, per raggiungere una comunità di scienziati che vogliono studiare l’organismo di Ellie, al fine di sintetizzare un antidoto.

Il canovaccio e l’estetica abbracciano i principali topos del filone filmico distopico-postapocalittico moderno, spaziando da Io Sono Leggenda all’adattamento televisivo di The Walking Dead, con qualche spruzzatina di Hunger Games qua e là.  Nulla di nuovo in sostanza, ma la qualità della realizzazione è tale da sconfiggere, talvolta, i lungometraggi ispiratori sul loro stesso terreno.

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Gli scorci naturali dello Utah o le macerie di Pittsburgh, soffocate da una flora arborea che ha preso la sua rivincita sul cemento, sono tra gli scenari più impressionanti visti durante questa generazione di console e non solo per la massa bruta di elementi grafici messi in gioco. Ogni ambiente, infatti, risulta connotato da ‘elementi di scena’ unici, tutti presentati con una cura maniacale ed amorevole per i dettagli, capace di conferire ai ‘set’ un eccezionale senso di realismo, enfatizzato anche da una fotografia attenta e da un uso quanto mai competente (ma non invasivo) dell’illuminazione dinamica. Talvolta si ha quasi l’impressione che alle spalle di Joel ci sia una troupe cinematografica, con tanto di macchina da presa montata su dolly, intenta a filmare l’azione.

Tale controllo registico costante permette di concatenare tra loro, con eccezionale continuità analogica, le fasi giocate e le cut-scene. Queste ultime fanno risaltare la poliedricità dei personaggi, i quali mostrano una versatilità assolutamente attoriale nel modulare le proprie espressioni per assecondare quelle che sembrano delle precise scelte impartite da un direttore filmico. In tal senso, The Last of Us è probabilmente il primo videogioco a presentare una ‘buona recitazione’ e una ‘buona regia’ in senso stretto, capaci di restituire emozioni sfumate, sottili, che esaltano uno script piuttosto tradizionale, ma non per questo scontato.

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La sceneggiatura è sorretta da dialoghi pregnanti, in grado di fotografare tutti i personaggi in maniera sintetica, precisa e, allo stesso tempo, sfumata, evitando i luoghi comuni per offrire prospettive coraggiose su tematiche tutt’altro che facili da affrontare, soprattutto in un videogioco. Nel crogiolo di varia umanità confezionato da Naughty Dog trovano spazio l’omosessualità, sfiorata con rara naturalezza ed eleganza, oppure la pedofilia, introdotta in maniera sottile, evitando gli eccessi, ma senza rinunciare a trasmettere tutto l’orrore di questa pulsione aberrante.

Nulla è esplicito o stereotipato, le creature virtuali di The Last of Us sono controverse, combattute, umane. La coppia di protagonisti stessa devia dagli schemi lineari di eroe/antieroe, per imboccare il percorso tortuoso di una caratterizzazione ambigua, fatta di luci e ombre, che in prima istanza può lasciare interdetti, ma che poi permette l’innescarsi di un’empatia assai profonda con i due personaggi.

Si tratta di un processo favorito anche dal montaggio ellittico incalzante, il quale riesce a descrivere in una ventina di ore le vicende di un anno, permettendo di rendere credibile e affascinante il sentimento paterno-filiale che si sviluppa gradualmente tra Joel ed Ellie e che sarà poi il cardine attorno a cui ruoterà la svolta finale della storia, caratterizzata da un coup de théatre assolutamente imprevedibile nelle logiche di un prodotto d’entertainment, ma sincero e gonfio di tanta verità.

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Anche dal punto di vista prettamente ludico, The Last of Us è connotato dal binomio di tradizione e professionalità. Il gioco si appoggia alle dinamiche stealth sperimentate nei due Manhunt di Rockstar Games, dove l’eliminazione furtiva degli avversari si alterna a momenti prettamente action, d’ispirazione third person shooter. Naughty Dog non fa altro che perfezionare questa formula, mandando in campo avversari dotati di un’intelligenza artificiale degna di tale nome o caratterizzati da pattern comportamentali imprevedibili e assai peculiari. I predoni, per esempio, applicano articolate strategie di gruppo per accerchiare Joel quando è sotto copertura, mentre alcuni mutanti compensano la perdita della vista con un udito sopraffino, richiedendo estrema prudenza se avvicinati in modalità stealth.

Il giocatore, inoltre, è libero di adottare l’approccio che preferisce, alternando in qualsiasi momento le uccisioni furtive con le sparatorie a fucile spianato. Queste ultime, però, erodono rapidamente le limitate risorse belliche di Joel, che debbono essere rimpinguate durante le parentesi esplorative, attraverso un attento lavoro di rastrellamento dell’ambiente. Oltre a munizioni e kit medici, possono essere raccolti oggetti di varia natura, che, se opportunamente assemblati tra loro, danno vita a ingegnose armi di fortuna, secondo l’ormai consolidata tradizione dei giochi ‘zombie survival’ à la Dead Rising e Dead Island. A tutto questo si aggiunge un’architettura complessa delle arene, ricca di scorciatoie, nicchie e zone d’ombra,  che completa il quadro di un gameplay semplice ma non banale, capace di risultare versatile e offrire un discreto spessore tattico.

In definitiva, tornando all’esempio iniziale, il librogame non ambiva certo a vincere il Premio Nobel per la letteratura, né intendeva competere con il monumentale set di regole di un Advanced Dungeons & Dragons, però riusciva e tenere incollato il lettore sino all’ultima pagina. Così, The Last of Us appassiona come un buon film e diverte come un buon videogioco, anche senza introdurre soluzioni estetiche o di game design particolarmente rilevanti. Il gioco Naughty Dog  non rappresenta un passo avanti nell’evoluzione del videogioco, ma è senz’altro un passo avanti nell’evoluzione della cultura del (e nel) videogioco.



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Piero Ciccioli

Coniuga da anni la sua professione di ricercatore scientifico a quella di articolista e saggista specializzato in videogiochi, cinema d’exploitation, horror, fumetti e nei più disparati prodotti di entertainment d’origine nipponica. Nutre una viscerale predilezione per tutto ciò che è weird e sogna di radere al suolo una riproduzione in cartapesta di Tokyo, vestito da Godzilla.

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